Napoli è la città dai mille tesori nascosti, luoghi storici
coperti dall’oblio dei secoli, scrigno meraviglioso d’arte e cultura che,
attraverso l’analisi e lo studio delle antiche pietre dei suoi edifici, racconta
un vissuto lontano nel tempo. La città è stata un intreccio di culture: greca,
romana, spagnola, francese; ed è sorprendente identificare tra esse anche
quella ebraica, che ha avuto un’incidenza culturale di tutto rilievo.
La costituzione di una comunità ebraica risale al primo
secolo e. v. e la sua presenza si mantenne costante fino all’espulsione degli
ebrei, avvenuta il 31 ottobre del 1541. Una presenza ben strutturata e radicata
sul territorio, con intere strade abitate da una fitta popolazione ebraica.
Quando nel 1541 gli ebrei di Napoli abbandonarono la città ogni traccia della
loro presenza fu cancellata: i luoghi di culto (sinagoga) le case di studio
(bet hamidrash) e i bagni rituali (miqwé) tutto irrimediabilmente scomparve
dalla memoria storica, non lasciando alcuna traccia della loro millenaria
presenza. Per mezzo millennio l’esistenza di questi luoghi è stata dimenticata.
Anni orsono, giovane
studente universitario, attraverso una ricerca sul campo riuscii a ritrovare
alcuni di questi luoghi. Una delle scoperte più sorprendenti ed emozionanti fu la
localizzazione del vecchio miqwé. Certo gli esercenti del locale denominato
“Caffè letterario di Porta Nova”, ai piedi delle rampe di S. Marcellino, non
potevano immaginare che anticamente il loro locale fosse il miqwé della
comunità ebraica.
Nel 1153, l’ebreo Ahchisamac, figlio di Marie Et Munde,
acquistò dalle monache di S. Marcellino una Cripta antiqua accanto alla sinagoga
piccola (tuttora esistente e adibita a chiesa) nella quale, grazie alla presenza
di una fonte di acqua sorgiva fu istituito un bagno rituale. Successivamente il
locale divenne di proprietà di 3 fratelli, Abramo, Gaudio e Scolo, figli di
Mele Sacerdote e di Regina, che nel 1282 ne concessero l’uso anche alle monache
di S. Marcellino. Il locale soprastante la cripta, oggi fronte strada, quello
che attualmente è il caffè letterario, un tempo era una scuola. Attualmente
l’accesso al miqwé si trova sul prospetto laterale dell’edificio, da dove una
stretta scalinata in tufo porta ai locali sottostanti. Il miqwé di Napoli si
presenta ai visitatori come un ambiente rettangolare diviso in due sezioni da
un arco di tufo. La prima era utilizzata dalle donne per prepararsi al bagno;
era presente la Balamit, donna addetta alla sorveglianza, la quale controllava
che le bagnanti, nude e senza alcun ornamento, adempissero lo scrupoloso rito
della tevilah, immersione. Sicuramente dei gradini permettevano il passaggio
alla seconda sezione del locale aldilà dell’arco, in quanto la sala anticamente
doveva trovarsi ad un livello più basso dell’attuale, per essere
successivamente riempita con i materiali di risulta provenienti
dall’abbattimento degli edifici adiacenti alla piazza di Porta Nova durante i
lavori di risanamento. Tutto questo non ci permette di comprendere se l’antico
miqwé di Napoli consistesse in una grande vasca rettangolare o se invece
fossero presenti diverse vasche singole come il miqwé ritrovato a Siracusa.
Solo dei lavori di scavo potrebbero permetterci di conoscerne la struttura originaria.
I motivi che
spingevano le comunità ebraiche a creare i miqwaoth erano esclusivamente religiosi;
l’acqua del miqwé doveva essere obbligatoriamente acqua viva, cioè in grado di
affluire e defluire naturalmente e la presenza di una fonte d’acqua sorgiva
permetteva ciò. La sorgente, tutt’oggi presente, costringe i locatari dell’immobile
a mettere in funzione periodicamente una pompa. Sicuramente l’acqua della
sorgente non era sufficiente ad alimentare l’enorme vasca o le numerose piccole
vasche, questo si evince dalla presenza di un condotto d’acqua piovana ancora
esistente sulla parete della sala, che convogliava all’interno l’acqua dal
tetto dell’edificio. Simile sistema è stato da me rilevato anche nel piccolo
miqwé presente nella sinagoga grande, l’attuale chiesa di S. Caterina Spina
Corona, ubicata nella stessa giudecca. Chiunque, incuriosito, voglia visitare questa
testimonianza di storia ebraica non dovrà fare altro che recarsi al “Caffè
letterario di Porta Nova” alle spalle di corso Umberto I, nei pressi dell’Università
Centrale.
Ciro Moses D’Avino
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