J’accuse. Questa parola, apparsa su un manifesto durante la
campagna antisemita provocata dal caso Dreyfus, fu coniata da Emile Zola per
sensibilizzare l’opinione pubblica francese, per prendere una posizione contro
l’ingiustizia compiuta nei confronti di un cittadino francese ebreo.
Io prendo spunto da ciò per rendere atto di giustizia verso alcune
persone che vivono in mezzo a noi. Parlo dei gerim che con il loro contributo
ci aiutano a mandare avanti la vita di questa cellula ebraica dell’Italia
Meridionale. Io in questi giorni mi sono chiesto cosa facciamo per loro, visto
che loro fanno tanto per noi. Da questa domanda è nata una riflessione che
voglio trasmettere a tutti voi.
La scorsa settimana abbiamo letto la Parashah di Yithrò. Questa
Parashah inizia raccontandoci che Yithrò riportò sua figlia Zipporà e i suoi
nipoti Gershom e Eliʽezer a Moshè, ricostituendo in questo modo il nucleo
familiare. Mi sono chiesto: perché la Parashah inizia così?
La risposta che mi sono dato è la seguente: vuole suggerirci che
l’aiuto di questo ger ha permesso la realizzazione del miracolo dell’uscita
dall’Egitto, perché custodendo quello che Moshé aveva di più caro, la sua famiglia,
gli ha permesso di dedicare tutte le sue energie alla battaglia intrapresa
contro il Faraone e alla liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana.
Il suo contributo è stato fondamentale.
La Parashah manda un messaggio molto chiaro: senza l’aiuto di
Yithrò non ci sarebbe stata la nascita del popolo di Israele. Nello stesso
modo, noi riusciamo a mantenere viva la nostra piccola comunità grazie al
contributo dei gerim che vivono tra noi.
Vorrei farvi riflettere sul significato dei due nomi dei figli di
Moshè. Gershom: straniero io sono in terra straniera; Eliʽezer: il mio D-o è
aiuto. Il ger è l’aiuto del mio D-o!
L’altra cosa che mi ha colpito è il fatto che quando si inizia a
parlare di Yithrò il Nome divino è nella forma plurale E-im, a voler
significare che il concetto che questo sacerdote midianita aveva di D-o
proveniva dal mondo pagano. Poi in 18, 10-11: “E disse Yithrò: benedetto sia ʺ (…);
Ora io riconosco che ʺ è più grande di qualsiasi divinità (E-im)”. Questi due
versi rappresentano l’atto di riconoscimento e accettazione del D-o unico, la
sua adesione al popolo d’Israele.
Ed è quello che succede qui tra noi, con queste persone che fanno
parte, pur non ebrei, del tessuto della nostra comunità perché - e questo non
dobbiamo dimenticarlo - si sentono profondamente legati al D-o d’Israele ed al
suo popolo.
Gli avvenimenti di questa settimana mi hanno fatto riflettere molto
sul contributo che questi amici fanno per noi: chi, sempre disponibile sia
materialmente che affettivamente, mettendo a nostra disposizione i suoi
contatti nella società napoletana; chi con le sue conoscenze e capacità
professionali; chi con il suo lavoro di volontariato sta riordinando l’anagrafe
della nostra comunità; chi con il suo grande aiuto in cucina ha consentito di
realizzare l’evento di gastronomia all’Università; chi mi ha accompagnato a
Trani dopo una notte passata al lavoro, sfiorando un incidente sull’autostrada.
E tutto ciò per la Comunità.
Io credo che, scusate la mia presunzione, non possiamo cavarcela
con un semplice grazie. L’ebraismo non si basa sulle parole ma su fatti
concreti: dobbiamo fare qualcosa di concreto per loro, come atto di giustizia
dovuto a queste persone che con il loro affetto e la loro disponibilità danno
il meglio di sé per il bene della Comunità. Dobbiamo prenderci cura di loro
così come loro prendono a cuore i nostri bisogni e le nostre necessità. “Perché
schiavi fummo in terra d’Egitto”; “Ama lo straniero che vive in mezzo a te
perché anche tu sei stato straniero”.
Concludo parafrasando le parole del Pirkè Avoth: Se non sono io per
loro, chi è per loro? E se non ora quando? Ora rivolgo queste parole a tutti
noi: Se non siamo noi per loro, chi è per loro? E se non ora quando?
Shabath shalom
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