Cerca nel blog

martedì 28 febbraio 2017

RIFLESSIONI SU YITHRÒ - Ciro Moses D'Avino

Miqve di Siracusa

J’accuse. Questa parola, apparsa su un manifesto durante la campagna antisemita provocata dal caso Dreyfus, fu coniata da Emile Zola per sensibilizzare l’opinione pubblica francese, per prendere una posizione contro l’ingiustizia compiuta nei confronti di un cittadino francese ebreo.
Io prendo spunto da ciò per rendere atto di giustizia verso alcune persone che vivono in mezzo a noi. Parlo dei gerim che con il loro contributo ci aiutano a mandare avanti la vita di questa cellula ebraica dell’Italia Meridionale. Io in questi giorni mi sono chiesto cosa facciamo per loro, visto che loro fanno tanto per noi. Da questa domanda è nata una riflessione che voglio trasmettere a tutti voi.
La scorsa settimana abbiamo letto la Parashah di Yithrò. Questa Parashah inizia raccontandoci che Yithrò riportò sua figlia Zipporà e i suoi nipoti Gershom e Eliʽezer a Moshè, ricostituendo in questo modo il nucleo familiare. Mi sono chiesto: perché la Parashah inizia così?
La risposta che mi sono dato è la seguente: vuole suggerirci che l’aiuto di questo ger ha permesso la realizzazione del miracolo dell’uscita dall’Egitto, perché custodendo quello che Moshé aveva di più caro, la sua famiglia, gli ha permesso di dedicare tutte le sue energie alla battaglia intrapresa contro il Faraone e alla liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana. Il suo contributo è stato fondamentale.
La Parashah manda un messaggio molto chiaro: senza l’aiuto di Yithrò non ci sarebbe stata la nascita del popolo di Israele. Nello stesso modo, noi riusciamo a mantenere viva la nostra piccola comunità grazie al contributo dei gerim che vivono tra noi.
Vorrei farvi riflettere sul significato dei due nomi dei figli di Moshè. Gershom: straniero io sono in terra straniera; Eliʽezer: il mio D-o è aiuto. Il ger è l’aiuto del mio D-o!
L’altra cosa che mi ha colpito è il fatto che quando si inizia a parlare di Yithrò il Nome divino è nella forma plurale E-im, a voler significare che il concetto che questo sacerdote midianita aveva di D-o proveniva dal mondo pagano. Poi in 18, 10-11: “E disse Yithrò: benedetto sia ʺ (…); Ora io riconosco che ʺ è più grande di qualsiasi divinità (E-im)”. Questi due versi rappresentano l’atto di riconoscimento e accettazione del D-o unico, la sua adesione al popolo d’Israele.
Ed è quello che succede qui tra noi, con queste persone che fanno parte, pur non ebrei, del tessuto della nostra comunità perché - e questo non dobbiamo dimenticarlo - si sentono profondamente legati al D-o d’Israele ed al suo popolo.
Gli avvenimenti di questa settimana mi hanno fatto riflettere molto sul contributo che questi amici fanno per noi: chi, sempre disponibile sia materialmente che affettivamente, mettendo a nostra disposizione i suoi contatti nella società napoletana; chi con le sue conoscenze e capacità professionali; chi con il suo lavoro di volontariato sta riordinando l’anagrafe della nostra comunità; chi con il suo grande aiuto in cucina ha consentito di realizzare l’evento di gastronomia all’Università; chi mi ha accompagnato a Trani dopo una notte passata al lavoro, sfiorando un incidente sull’autostrada. E tutto ciò per la Comunità.
Io credo che, scusate la mia presunzione, non possiamo cavarcela con un semplice grazie. L’ebraismo non si basa sulle parole ma su fatti concreti: dobbiamo fare qualcosa di concreto per loro, come atto di giustizia dovuto a queste persone che con il loro affetto e la loro disponibilità danno il meglio di sé per il bene della Comunità. Dobbiamo prenderci cura di loro così come loro prendono a cuore i nostri bisogni e le nostre necessità. “Perché schiavi fummo in terra d’Egitto”; “Ama lo straniero che vive in mezzo a te perché anche tu sei stato straniero”.
Concludo parafrasando le parole del Pirkè Avoth: Se non sono io per loro, chi è per loro? E se non ora quando? Ora rivolgo queste parole a tutti noi: Se non siamo noi per loro, chi è per loro? E se non ora quando?
Shabath shalom

Nessun commento: