La presenza ebraica nella città di Napoli è di
antica memoria; la sua popolazione doveva essere alquanto consistente, dal
momento che risiedeva in più aree cittadine. Al primo nucleo stabilitosi in vicus
iudaeorum, denominato successivamente vico Spogliamorti e
attualmente conosciuto come vico Limoncello, nei pressi di Porta San
Gennaro, si aggiungevano l'area di Forcella conosciuta col toponimo di Giudecca
Vecchia e la zona di Patrizzano a Porta Nuova denominata Giudecca Nuova che
partendo dalle rampe di San Marcellino si estendeva fin quasi all'odierna
piazza Nicola Amore per raggiungere verso sud la cinta muraria lato mare.
La giudecca di Porta Nuova venne costituendosi
intorno al VII secolo; la zona era collegata a piazzetta Nilo, che già nel
periodo romano era abitata da genti di origine asiatica. È proprio in quest'area cittadina che gli ebrei
napoletani diedero la loro disponibilità a difendere una parte della cinta
muraria durante l'assedio posto da Belisario alla città nel 537 e.v., molto
probabilmente proprio perché in quest’area urbana vi erano le abitazioni e gli
edifici comunitari.
In un documento del 984 viene menzionata la
presenza di una sinagoga attigua a un bagno pubblico ai piedi dell'altura di
Monterone, ossia le rampe di San Marcellino, in prossimità della cinta muraria
presso il mare: da ciò possiamo dedurre che questa sinagoga doveva essere un
luogo di culto già in epoca antica, dato che la normativa bizantina prevedeva
fin dal secolo V il divieto di costruire nuove sinagoghe. Molti sono gli indizi
per identificare questa sinagoga nell’attuale chiesa di Santa Caterina Spina
Corona, conosciuta un tempo come Santa Maria della Purificazione.
La confisca alla comunità ebraica avvenne nel
1290, quando la Sinagoga Grande della città di Napoli venne trasformata in
chiesa prendendo il nome di Santa Caterina Spina Corona o, come veniva chiamata
dal popolino, la chiesa delle “zizze”, in quanto sulla facciata venne posta una
fontana, ancora in situ, dalla quale dai seni della sirena Partenope sgorgava
l'acqua di una sorgente,
la stessa che alimentava il mikveh, il bagno
rituale presente all'interno dell'edificio sinagogale, ad uso esclusivo delle
donne. Come vedremo, i resti del mikveh sono ancora riconoscibili all'interno
dell'edificio.
L'antica sinagoga fu trasformata in casa per
catecumeni, in cui venivano recluse le donne ebree convertende al
cristianesimo. Nel 1500 questo educandato femminile, noto con il nome di
“figliole di Santa Caterina”, per volontà del viceré Don Pedro da Toledo fu
spostato nell'ospedale del complesso di Sant'Eligio presso piazza Mercato.
Santa Caterina Spina Corona alla Giudecca ha
mantenuto nel tempo l’aspetto inusuale della sua
struttura interna, almeno come chiesa cattolica.
Infatti sono da riconoscere ancora le tracce del mikveh in un ambiente
rettangolare di modeste dimensioni posto in fondo all'unica navata e alla sua
destra. L'ambiente è al di sotto del piano di calpestio dell'edificio,
presentando tre gradini, ciò che resta dell'antica rampa della vasca ad uso di
mikveh, quasi interamente interrata anche se ancora ben riconoscibile; sulla
parete in fondo e al di sopra della vasca sono presenti due condotti che
servivano per incanalare l'acqua piovana.
All'interno dell'edificio sono presenti due stanze
laterali ammezzate che normalmente nelle sinagoghe più antiche erano ad uso
esclusivo delle donne, che potevano seguire la preghiera separatamente dagli
uomini, senza essere viste. Le donne accedevano alla parte loro riservata
attraverso un ingresso secondario attualmente murato (ma che era ancora visibile
quando è stato fatto il primo sopralluogo del 2014 insieme al Rav Scialom
Bahbout) e una stretta scala probabilmente di epoca coeva, che le portavano sia
alle stanze da cui seguivano la funzione liturgica sia al mikveh, senza che
occhio indiscreto potesse notarle.
La sinagoga si presenta di pianta quadrata e vi si
accede attraverso la lunga rampa di scale che è al di sotto del livello della
strada. Questa caratteristica si trova anche in altre sinagoghe di epoca
antica, come nella sinagoga di Praga del 1270, la Shul “Vecchionuova”,
considerata la più antica d'Europa: questo per adempiere ad un passo delle
scritture dove viene detto “dalle profondità
della terra si alzeranno le preghiere verso
l'altissimo … dal profondo a te grido o Signore; Signore
ascolta la mia voce...” (salmo 129).
Sul portale un’antica iscrizione in ebraico, ormai
quasi completamente erosa, forse la stessa cui faceva riferimento il Ferrorelli
nella sua pubblicazione sugli ebrei dell'Italia meridionale. Negli anni '80,
quando studente iniziai le mie ricerche per verificare se ancora esistevano
tracce dell’antica presenza ebraica a Napoli, le lettere erano ancora visibili
(scattai pure delle foto) ma purtroppo con il passare del tempo sono andate
perse.
La sinagoga di Spina Corona è di grande importanza
storica, in quanto le sinagoghe d'Europa più antiche che hanno conservato la
loro struttura originaria sono solo due, ed entrambe del 1200: quella di Praga,
la Shul Vecchionuova, e quella di Trani, da pochi anni restituita alla
Comunità Ebraica.
Il mio lavoro vuole mettere in luce l'importanza
storica ed architettonica dell'edificio sinagogale che sembrerebbe il più
antico d'Europa. Un tale bene storico rinforza maggiormente l'immagine di
Napoli come città d'arte tra le prime in Europa ed evidenzia il primeggiare
nella durata dei siti storici di Napoli, a dispetto persino della forte
sismicità della zona.
Ma la chiesa di Santa Caterina Spina Corona non
era il solo sito sinagogale presente nell'area. Nel 1153 l'ebreo Achisamaq
figlio di Marie et Munde acquistò dal convento di San Marcellino due locali
nella zona di Patrizzano in cambio di 4 moggi di terra ubicati in vicus
iudaeorum (vico Limoncello) con la facoltà di impiantare una piccola
sinagoga e un Bet Midrash, ossia una scuola rabbinica.
Per tutto il 1200 altri ebrei continuarono a
stabilirsi in questa zona. Tra essi presero residenza nel 1246 Mele Sacerdote e
sua moglie Regina con i loro figli Abramo, Gaudio e Scolo: questa famiglia fece
costruire a sue spese un mikveh ad uso della sinagoga. Dei locali è rimasta una
traccia storica, in quanto erano ubicati di fronte alla chiesetta di San Renato
alla base delle rampe di San Marcellino; la chiesetta venne successivamente
assorbita dal complesso monastico di San
Marcellino quando venne ampliato nel 1500. La
piccola sinagoga si presenta a pianta quadrata e la
sua struttura architettonica è quanto mai
semplice; il portale marmoreo è di periodo romano e fa
supporre il riutilizzo del materiale esistente in
loco o il riadattamento di una struttura di quel periodo, infatti in questa
zona sono stati ritrovati molti reperti di edilizia romana databili tra il I
secolo a.e.v. e la prima metà del I secolo e.v.
La sinagoga è fiancheggiata da un locale coevo,
oggi adibito a caffè, che si presenta a pianta rettangolare, presumibilmente il
luogo adibito al Bet Midrash. Dall’interno del locale una stretta
scalinata in tufo porta all’ambiente sottostante, che si presenta come una sala
rettangolare divisa in due sezioni da un arco di tufo. La prima era utilizzata
dalle donne per prepararsi al bagno; sicuramente dei gradini permettevano il
passaggio alla seconda sezione aldilà dell’arco, in quanto la sala anticamente
doveva trovarsi ad un livello più basso dell’attuale, per essere
successivamente riempita con i materiali di risulta provenienti
dall’abbattimento degli edifici adiacenti alla piazza di Porta Nuova durante i
lavori di risanamento. Tutto questo non ci permette di comprendere se il mikveh
consistesse in una grande vasca rettangolare o se invece fossero presenti
diverse vasche singole, come nel mikveh ritrovato a Siracusa.
Per quanto
concerne l’iniziativa da me promossa per la restituzione dell’antica sinagoga,
la chiesa di Santa Caterina Spina Corona, tutto è partito da un incontro privato
avvenuto nel febbraio 2012 a Napoli nei locali della Curia, tra l’allora Rabbino
Capo Scialom Bahbout e il Cardinale Crescenzio Sepe,
presente io stesso. Successivamente, nella sua visita alla Comunità Ebraica, il Cardinale aveva
affermato la disponibilità da parte della Chiesa a restituire il bene in
comodato d’uso alla Comunità.
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